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Potrò mattina e fera averne molte. S'io dirò: Spenditor, questo mi piglia, Che l'umido crudel poco nutrifce;

Quefto no, che 'l catar troppo affottiglia; Per una volta, o due, che mi obbedifce, Quattro, e fei mi fi scorda, o perchè teme, Che non gli fia accettato, non ardifce: lo mi riduco al pane; e quindi freme La collera; cagion, che a li due motri Gli amici, et io fiamo a contefa infieme. Mi potrete anco dir; de li tuoi fcorti Fa, che'l tuo fante comprator ti fias. Mangia i tuoi polli a li tuo alari cotti. Io per la mala fervitude mia

Non ho dal Cardinale ancora tanto, Ch'io poffa fare in Corte l'ofteria. Apollo, tua mercè, tua mercè, fanto Collegio de le Mufe, io non mi trovo Tanto per voi, ch' io poffa farmi un manto. E fe'l Signor m'ha dato, onde far nuovo Ogni anno mi potrei più d'un mantello, Che m'abbia per voi dato non approvo. Egli l'ha detto: lo dirlo, a quefto e a quello Voglio anco e i verfi miei poffo a mia pofta Mandare al Culifeo per lo fugello. Opra, ch'in efaltarlo abbia compofta, Non vuol, ch' ad acquiftar mercè fia buona ; Di mercè degno è l'ir correndo in posta. A chi nel Barco, e in villa il fegue, dona, A chi lo vefte, e fpoglia, o pone i fiaschi Nel pozzo per la fera in frefco a nona: Vegghi la notte, in fin che i Bergamaschi Si levino a far chiodi, sì che fpeffo

Col torchio in mano addormentato cafchi. S'io l'ho con laude ne' miei verfi meffo, Dice, ch'io l'ho fatto a piacere, e in ozio; Più grato fora effergli ftato appreДo. E fe in cancelleria m' ha fatto fozio

A Melan, del Coftabil, sì. c'ho il terzo Di quel, ch'al notajo vien d'ogni negozio ; Gliè, perchè alcuna volta io fprono, esferzo

Mutando beftie, e guide, e corro in fretta Per monti, e balze, e con la morte scherzo, Fa a mio fenno, Maron, tuoi verfi getta Con la lira in un ceffo, e un'arte impara, Se beneficj vuoi, che fia più accetta. Ma tofto che n'hai, penfa che la cara Tua libertà non meno abbi perduta, Che le giocata te l'aveffi a zara › E che mai più (fe bene a la canuta Età vivi, e viva egli di Neftorre) Quefta condizion non ti fi muta. E fe difegni mai tal nodo fciorre Buon patto avrai, fe con amore, e pace Quel, che t'ha dato, fi vorrà ritorre. A me per effer ftato contumace

Di non voler Agria veder, nè Buda, Che fi ritoglia il fuo sì non mi fpiace; Se ben le miglior penne, ch'a la muda Avea timeffe, mi tarpafle; come,

Che da l'amor, e grazia fua mi escluda; Che fenza fede, e fenza amor mi nome, E che dimoftri con parole, e cenni, Che in odio, e che in difpetto abbia il mio E quefto fu cagion, ch' io mi ritenni (nome: Di non gli comparire innanzi mai

Dal di, che indarno ad escufar mi venni. Ruggier, fe a la progenie tua mi fai Sì poco grato, e nulla mi prevaglio, Che gli alti gefti, e'l tuo valor cantai; Che debbo fare io quì? poich'io non vaglio Smembrar fu la forcina in aria starne, Nè fo a fparvier, nè a can metter guinzaglio: Non feci mai tai cofe, e non fo farne : A gli ufatti, agli spron (perch' io fon grande) Non mi poffo adattar, per porne, o trarne. Io non ho molto gufto di vivande,

Che Scalco io fia; fui degno effere al monda Quando viveano gli uomini di ghiande. Non vo'il conto, di man torre a Gifmondo: Andar più a Roma in pofta non accade A placar la grand' ira di Secondo.

E

E quando accadeffe anco, in quefta etade
Col mal, ch' ebbe principio allora forfe,
Non fi convien più correr per le ftrade.
Se far cotai fervigi, e raro torfe

Di fua prefenza de' chi d'oro ha fete,
E ftargli, come Artofilace a l'Orfe:
Più tosto che arricchir, voglio quiete;
Più tosto che occuparmi in altra cura
Sì, che inondar lafci il mio ftudio a Lete.
Il qual, fe al corpo non può dar pastura,
Lo dà a la mente con sì nobil' efca,
Che merta di non ftar fenza cultura.
Fa, che la povertà meno m'increfca,
E fa, che la ricchezza sì non ami
Che di mia libertà per fuo amor efca.
Quel,ch'io non fpero aver, fa ch' io non brami;
Che nè fdegno, nè invidia mi confumi,
Perchè Marone, o Celio il Signor chiami:
Ch'io non afpetto a meza eftate i lumi,
Per effer co'l Signor veduto a cena

Ch'io non lafcio accecarmi in quefti fumi: Ch'io vado folo, e a piedi, ove mi mena. Il mio bifogno; e quando io vò a cavallo, Le bifaccie gli attacco fu la fchiena. E credo, che fia quefto minor fallo, Che di farmi pagar, s'io raccomando Al Principe la caufa d'un Vaffallo: O mover liti in beneficj, quando

Ragion non v'abbia, e facciami i Piovani Ad offerir penfion venir pregando, Anco fa, che al Ciel levo ambe le mani, Ch'abito in cafa mia comodamente, Voglia tra Cittadini, o tra villani, E che ne i ben paterni il rimanente Del viver mio, fenza imparar nuov'arte, Poffo, e fenza roffor, far di mia gente, Ma perchè cinque foldi da pagarte, Tu, che noti, non ho, rimetter voglio La mia favola al loco, onde fi parte. Aver cagion di non venir, mi doglio: Detto ho la prima, e s'io vo'l'altre dire

Nè questo basterà, nè un altro foglio. Pur ne dirò anco un'altra: che patire Non debbo, che levato ogni foftegno, Cafa noftra in ruina abbia a venire. De' cinque, che noi fiam, Carlo è nel regno, Onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro, E di ftarvi alcun tempo fa difegno: Galaffo vuol ne la città di Evandro Por la camicia fopra la guarnaccia : E tu fei col Signore ito, Aleffandro. Ecci Gabriel, ma che vuoi tu, ch' ei faccia ? Che da fanciullo la fua mala forte

Lo impedi de li piedi, e delle braccia. Egli non fu nè in piazza mai, nè in Corte; Et a chi vuol ben reggere una cafa, Quefto fi può comprendere, che importe, A la quinta forella, ch'è rimasa, Era bifogno apparecchiar la dote, Che le fiam debitori, or che fi accasa L'età di noftra Madre mi percuote Di pietà il cor, che da tutti in un Senza infamia lafciata effer non puote. Io fon de' dieci il primo, e vecchio fatto Di quaranta quattro anni, e il capo calvo Da un tempo in quà fotto l'cuffiotto appiatto. La vita, che mi avanza, me la falvo

tratto

Meglio, ch'io fo: ma tu, che diciotto anni Dopo me t'indugiafti a ufcir de l'alvo, Gli Ungheri a veder torna, e gli Alemanni, Per freddo e caldo fegui il Signor noftro, Servi per amendue, rifà i miei danni. Il qual fe vuol di calamo, e d'inchiostro Di me fervirfi, e non mi tor da bomba, Digli; Signore il mio fratello è vostro. Io ftando qui farò con chiara tromba Il fuo nome fonar forse tanto alto, Che tanto mai non fi levò colomba. A Filo, a Cento, in Ariano, a Calto Arriverei, ma non fin' al Danubio, Ch'io non ho piè gagliardi a sì gran falto, Ma fe a volger di nuovo aveffi al fubio

I quindici anni, che in fervirlo ho fpefi Paffar la Tana ancor non ftare' in dubio. Se avermi dato onde ogni quattro mefi Ho venticinque fcudi, nè fi fermi, Che molte volte non mi fien contefi; Mi debbe incatenar, fchiavo tenermi ; Obligarmi, ch' io fudi, e tremi fenza Rifpetto alcun;ch'io muoja,o ch'io m'infermi: Non gli lafciate aver quefta credenza: Ditegli, che più tofto, ch'effer fervo, Torrò la povertade in pazienza. Un'afino fu già, ch'ogni offo, e nervo Moftrava di magrezza, e entrò pel rotto Del muro, ove di grano era uno acervo, E tanto ne mangiò, che l'epa fotto

Si fece più d'una gran botte groffa, Fin che fu fazio, e non però di botto. Temendo poi, che gli fien pefte l'offa, Si sforza di tornar dond'entrato era, Ma par, che 'l buco più capir no' poffa. Mentre s'affanna, e uscire indarno fpera, Gli diffe un topolino; se vuoi quinci Ufcir, tratti, compar, quella panciera. A' vomitar bifogna, che cominci

Ciò, c'hai nel corpo, e che ritorni macro;
Altrimenti quel buco mai non vinci.

Or conchiudendo dico, che fe'l facro
Cardinal comperato avermi ftima

Con li fuoi doni, non mi è acerbo, et acro Kenderli, e tor la libertà mia prima.

SATIRA SECONDA:

A M. Galaffo Ariofto fuo Fratello.

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Erch' ho molto bifogno, più che voglia, D' effer in Roma, ora, che i Cardinali A guifa de le ferpi mutan fpoglia : Or che fon men pericolofi i mali

A' corpi, ancor che maggior pefte affliga

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